Kathmandu - La valle dei misteri (parte I)

05 - 08 Agosto 2016

Scendiamo dall’aereo in questo piccolissimo aeroporto e un bus ci fa percorrere i 50 metri che vanno dalle scalette dell’aereo all’edificio principale. Facciamo pochi metri e ci troviamo di fronte una folla disumana al recupero bagagli; questo è di vecchio tipo con il nastro che esce da una piccola porticina, fa diverse curve come un lungo serpentone e si infila nuovamente in una apertura. Tutta il grande stanzone è invaso di persone e di carrelli bagagli vuoti, disposti il più casualmente possibile, come un immenso ingorgo silenzioso. Cerco di farmi spazio e conquisto un posto in prima fila. Poi inizia la lunghissima e snervante attesa, nella quale, di tanto in tanto, quattro o cinque bagagli vengono messi sul nastro, e ogni volta la speranza di vedere il tuo, infranta puntualmente. Già ci immaginiamo la nostra roba in volo per il Madagascar, Erika fa amicizia con un monaco Tibetano che miracolosamente gli rivolge qualche parola e anche un sorriso.

Dopo un ora finalmente un cilindro perfettamente incellofanato che suscita la curiosità di tutti i presenti appare dall’apertura del nastro. Tiriamo un sospiro di sollievo. Usciamo dall’aeroporto e avendo letto che ci sono dei bus locali appena fuori il parcheggio ci divertiamo a chiedere informazioni ai vari stand presenti e neanche uno, nemmeno quello che doveva essere il più disinteressato perché governativo, ci dice della possibilità di questi bus. Quindi usciamo dall’edificio e seguiamo un gruppo di nepalesi che di certo non prenderà il taxi. Dopo qualche minuto siamo fuori dall’aeroporto, in una grande strada, chiediamo la direzione per Ratnapark (il parco al centro di Kathmandu, centro nevralgico dei trasporti locali) e subito ci viene indicato un bus in attesa che per poche rupie ci porta in centro. Ci divertiamo un sacco a fare queste cose e quando ci riescono ci sentiamo proprio orgogliosi di noi stessi.

Kathmandu city bus
7 mesi di autobus scassati

Da Ratnapark decidiamo di camminare essendo meno di due chilometri la distanza che ci separa dalla guesthouse. Il traffico è infernale, i clacson si uniscono in un unico indistinguibile frastuono, la strada è zeppa di autoveicoli di qualsiasi forma e dimensione, tutti inesorabilmente immobili. L’aria è al limite del respirabile. Attraversiamo veloci la strada e ci immettiamo nei vicoletti della città vecchia. Qui, nonostante qualche moto sfrecci incurante in questi spazi ristretti, l’aria che si respira ci inizia ad entusiasmare. Innanzi tutto i colori, poi il disordine, la noncuranza, i piccoli negozi di frutta e verdura, le piazzette con i piccoli templi induisti che si aprono d’improvviso dietro ad un angolo.

Kathmandu temples
Templi dove meno te li aspetti

Il sole sta lentamente tramontando e la luce inizia a diminuire. La vita sta lentamente scemando e questa parte di città sta diventando deserta. Forse anche per questo tutto ci sembra bello stasera. Arriviamo in guesthouse scoprendo che fortunatamente questa non è al centro della zona turistica, da “backpakers”, ma in una via più tranquilla. La stanza è accettabile anche se ce l’aspettavamo un po’ meglio forse. Comunque stavolta la comodità di averla prenotata prima, non sapendo a che ora saremmo arrivati con il doppio spostamento aereo, ha avuto la meglio sulla possibilità di andare porta porta a scegliere il miglior rapporto qualità/prezzo.
Intanto fuori inizia a piovere copiosamente, anche qui infatti questa è la stagione delle piogge. Come al solito non ci facciamo spaventare, indossiamo i nostri ponchi e ci incamminiamo per le vie in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Non ci allontaniamo troppo visto che siamo stanchi e ci dirigiamo quindi verso la zona turistica. Veniamo attratti da un posticino molto carino con musica dal vivo, dove ci prendiamo due tipici piattoni con diverse tipologie di curry e chapati.
L’indomani mattina iniziamo col capire cosa c’è da vedere qui in Nepal in generale e a Katmandu in particolare, infatti a causa delle pratiche per il visto australiano non ci siamo minimamente preparati alla visita di questo paese. Capiamo che, tolti i trekking, le maggiori attrazioni si concentrano proprio nella valle di Katmandu e questo ci fa comodo: infatti almeno tre giorni li dovremo passare qui aspettando la visita medica, ultimo passo del capitolo Australia (o almeno speriamo!!). Tutto è concentrato nei paesini nei dintorni ed è facilmente raggiungibile con i mezzi a patto di capire qual è quello giusto; dato che oggi pomeriggio dovremo incontrare un amico di Erika, anche lui in viaggio in Nepal, decidiamo che oggi ci concentreremo sul centro storico di Kathmandu o, meglio, Durbar Square, lasciando l’esplorazione del resto ai prossimi giorni.
Ci iniziamo a preparare e sembra filare tutto liscio quando una mia battuta scatena un putiferio nel quale rimaniamo invischiati per tutta la mattina tra alti e bassi. Comunque usciamo e iniziamo la nostra passeggiata. Ci fermiamo per pranzo in un fast food locale dove prendiamo una sorta di pizza con sopra verdure di ogni sorta.
Usciti ci dirigiamo verso il centro lasciandoci trasportare dai vicoli che più rapiscono la nostra attenzione, cercando di non perdere troppo la direzione. Il brulicare di persone, il caos, i tanti piccoli templi disseminati negli angoli più nascosti, l’immenso “bazaar” che occupa ogni spazio possibile e impossibile tra queste stradine, le immancabili moto che sfrecciano incuranti tra la folla, le case di mattoni con il piano sulla strada talmente basso che non si può stare in piedi senza curvare la schiena, tutto ci trasmette qualcosa di fascinoso anche se non sappiamo dire il perché.

Kathmandu streets
Il caos che affascina…

Completamente a caso ci troviamo in una delle vie principali dello struscio nella old town e una piccola vetrina cattura la nostra attenzione: biscotti di ogni forma e colore! Oggi ne abbiamo proprio bisogno per tirarci su di morale e ne compriamo qualche manciata. Proseguiamo sgranocchiando questi deliziosi dolcetti e arriviamo in una piazzetta con un tempio piuttosto grande. La confusione è tanta ma ci permette comunque di apprezzare questo edificio; la bellezza non è tanto nell’architettura o nelle decorazioni quanto nell’uso intenso che viene fatto di questi luoghi di culto dalla popolazione. Non sono solo belle rappresentazioni della divinità ma sono posti dove la gente prega, mangia, si riposa, chiacchiera, scherza, fa affari, il tutto con un intimo coinvolgimento dell’edificio stesso, che viene macchiato, sporcato, usato come spalto, pulito, toccato, riconvertito a bancone per le merci... in un'unica parola vissuto pienamente.

Kathmandu temples
Affacciarsi sul tempio

Continuiamo verso la Durbar Square seguendo la massa di persone che intasa completamente la via. Già arrivando lo spettacolo è un poco desolante, con gli edifici puntellati da lunghi pali di legno o coperti da grossi teloni o interdetti all’accesso da lunghe inferriate: i danni del recente terremoto sono vivissimi e ancor lungi dall’esser sanati. Anche dalla biglietteria la vista non è delle più stimolanti: più che una delle più mistiche piazze del sub-continente indiano, sembra un cantiere a cielo aperto, e completamente fermo per di più. Nonostante questo il prezzo del biglietto è sempre esorbitante (per gli standard locali), probabilmente perché è giusto far pagare ai turisti la ricostruzione (anche se non possono godere delle bellezze del luogo perché ancora parzialmente distrutte). Se non altro questo biglietto vale per una settimana se si va a fare la richiesta all’ufficio turistico. Manco a dirlo è la prima cosa che facciamo, almeno possiamo un minimo ammortizzare la spesa (alta per il nostro budget giornaliero).
Della visita ci rimane non molto impresso nella mente se non che il terremoto ha fatto enormi danni: quello che la guida infatti descrive come uno dei più suggestivi complessi di edifici, ora è oscurato dalle transenne per le ristrutturazioni.

Kathmandu Durbar Square
Lo splendore perduto

Solo un tempio, proprio perché tutt’ora utilizzato dai locali, è molto suggestivo e rimaniamo un po’ di tempo a osservare i costumi dei fedeli e a scattare qualche foto.

Kathmandu temples
Perdersi tra le infinite divinità induiste

Mi si avvicina anche un santone o guru che vuole che io gli faccia la foto ma so che vuole dei soldi in cambio e quindi rifiuto una prima volta. Però poi me ne pento perché comunque una foto del genere mi piacerebbe, così quando torna all’attacco accetto, anche se il risultato non è dei migliori.
Torniamo poi verso Thamel dove abbiamo appuntamento con Stefano, l’amico di Erika, per un chai in un bar. Per lui è l’ultimo giorno dei quindici che ha passato in Nepal e quindi ci dà anche qualche consiglio tra cui una deviazione rispetto all’itinerario che avevamo in mente: Bandipur, un piccolo villaggio a metà strada tra qui e Pokhara. Ci dà anche il nome di qualche guida per dei trekking che poi proveremo a contattare. Facciamo quattro chiacchiere molto rilassati e anche i camerieri sembrano esserlo anche più di noi: per fare quattro the impiegano quarantacinque minuti, penso il record mondiale. Comunque il tempo passa velocemente ed è già tempo di salutarsi, lui deve fare le valigie per il rientro e non vogliamo trattenerlo oltre. Conversare per un po’ in italiano è stata una boccata d’ossigeno e finalmente abbiamo potuto raccontare le nostre esperienze senza l’ostacolo linguistico. Altra considerazione che ci viene in mente è il fatto di non esser cambiati poi tanto. In questo viaggio possiamo sì esserci arricchiti enormemente come persone, aver smussato dei lati del nostro carattere, fatto tante esperienze, imparato un mucchio di cose sul mondo e su noi stessi, ma lo zoccolo duro del nostro “io” non è cambiato. Lo abbiamo visto incontrando un amico, un ragazzo proveniente dalla nostra stessa cultura: eravamo perfettamente a nostro agio, esattamente uguali a dicembre e nessuno avrebbe potuto distinguere chi dei due fosse in viaggio da 7 mesi e chi da 15 giorni. Capiamo che tutto questo ha una ragione profonda che ci rassicura: noi non siamo ora e, non eravamo all’inizio di questa avventura, in cerca di “noi stessi”. La nostra personalità, i nostri valori, la nostra cultura si era già formata in questi trent’anni di vita e non avevamo nessun bisogno di cercare risposte in culture differenti: la nostra ci andava benissimo. Eravamo insomma già formati come persone, almeno nella parte più profonda di noi. Quello che ci ha regalato questo viaggio sono nuovi occhi, non una nuova anima; l’esperienza non ci ha messo in “crisi”, e questo ci fa capire che il percorso fin qui seguito nelle nostre vite è in qualche modo solido. Torniamo in albergo forti di questa convinzione.
Per cena troviamo un posticino veramente al top: il maestro dei MoMo. I MoMo sono i ravioli al vapore tipici della cucina tibetana che già avevamo assaggiato in Cina. Qui, in questa piccola baracca, fanno solo questo piatto, ma la clientela è tanta e questo ci garantisce che il cibo è buono e sufficientemente sano. Tutto si conferma vero e in più è anche molto economico: eccezionale!!

Kathmandu Momo
Delizia per il palato: MoMo

Il giorno successivo ci svegliamo molto presto perché abbiamo in mente di assistere alla cerimonia di vestizione della statua di Vishnu che si tiene in un tempio a Budhanilkanta. Ci dirigiamo subito verso la strada principale che porta verso Nord e qui aspettiamo che passi qualche shared-taxi. Troviamo velocemente un piccolo minivan strapieno di persone, ci accertiamo che vada nella nostra direzione e in men che non si dica siamo in viaggio. Impieghiamo circa mezz’ora per percorrere tutta la strada ma alla fine arriviamo a Budhanilkanta. Ci dirigiamo subito al tempio: sono le 7 ma non abbiamo idea di quando inizi la cerimonia e non vogliamo perderla: speriamo non sia troppo tardi. Saliamo le scale e ci troviamo di fronte a una piccola piazza, con una recinzione rettangolare al centro; al di fuori di questa una piccola folla sta pregando alla maniera induista: lanciando petali colorati e polvere rossa, facendo suonare campanelle e accendendo piccoli ceri. Tutto è confusione qui, anche l’atto di riverenza alla divinità, disordine primordiale che, se capito, ti entra dentro.

Kathmandu Budhanilkanta
La devozione…

 

Kathmandu Budhanilkanta
Una candela per ogni preghiera

Affacciandoci alla recinzione vediamo infine la statua per cui siamo qui: una grande figura umana sdraiata su un letto di serpenti e circondata d’acqua, Vishnu. Una grande massa di credenti fa la fila per rendergli omaggio portando ghirlande di fiori arancioni, cibo e un liquido bianco che crediamo sia latte.

Kathmandu Budhanilkanta
In fila per rendere omaggio

Sulla statua sono già presenti una gran quantità di ornamenti e, anche se sembrano un po’ rovinati, ci viene il dubbio che la vestizione ce la siamo persa. Stiamo lì per una mezzoretta a far foto e cercare di capire il più possibile tutto il mondo di riti che ci circonda quando sentiamo il tintinnare di una campanella e vediamo i cancelli della recinzione chiudersi: forse ci siamo. Ci mettiamo in postazioni dove possiamo vedere bene la cerimonia, abbarbicati sui muretti perimetrali. Prima la statua viene completamente spogliata di ogni ornamento, poi lavata con l’acqua della vasca e il latte portato dai fedeli e infine “vestita” di fiori votivi. Il tutto fatto da giovani monaci vestiti di un rosso acceso con gesti studiati e precisi. Dopo di ciò c’è la cerimonia vera e propria dove un canto accompagna le preghiere e i gesti di riverenza dei presenti. Il tutto è molto suggestivo anche se devo ammettere che la parte che più mi è piaciuta è stata quella caoticamente imperfetta di prima del rito.

Kathmandu Budhanilkanta
Il lavaggio di Vishnu

 

Kathmandu Budhanilkanta
Vishnu pronta per la giornata

Usciamo e andiamo a cercare qualcosa per colazione: troviamo dei biscottini confezionati e un bel tè caldo (con la solita calma dei Nepalesi che stanno quasi battendo i cambogiani a fancazzismo).
Riprendiamo la strada per la nostra prossima meta, stavolta a piedi. Abbiamo letto su internet di un itinerario molto bello che si snoda per la campagna attorno Kathmandu e porta da qui a Boudhanath (lo stupa buddista più sacro e importante del Nepal) passando per un paio di monasteri tibetani che dominano la valle. Facciamo poche centinaia di metri lungo la strada principale, chiacchierando amabilmente, quando d’improvviso Erika prima è accanto a me e un secondo dopo sparisce. Precipita dal marciapiede (alto una quarantina di centimetri almeno). Sento un tonfo sordo, seguito da qualche imprecazione, prima di avere il tempo di fare qualsiasi cosa. Guardo in basso e vedo Erika spalmata sull’asfalto dolorante, la scena è comica ma mi guardo bene dallo scompisciarmi, anche perché sembra si sia fatta male. La metto subito seduta sul marciapiede, ha un ginocchio sbucciato e l’altro dolorante. Un commerciante accorre subito con la moglie e si accucciano sulla paziente. Io gli chiedo se hanno del ghiaccio e lui parte subito e trova una pescheria lì vicino che malvolentieri ce ne “dona” un tocco. Lo metto sul ginocchio di Erika che sente subito un po’ di sollievo. Dopo poco interviene la donna che non capisce questa pratica e, prendendo il ghiaccio tra le mani (sudicie), lo fa sciogliere un poco e poi passa il liquido sulla piccola sbucciatura: una mano santa proprio!

Kathmandu injuries
Cadere come una fagiana…

Nel frattempo l’uomo mi indica una farmacia dove poter fare disinfettare il ginocchio e fare una fasciatura. Anche se mi sembra un po’ esagerato, di certo male non può fare. La donna accompagnando Erika butta via il pezzo di ghiaccio. Ma perché non si sta ferma co le zampe?!?!?
Questo farmacista ha, nel retrobottega, una piccola clinica dove si prende cura di Erika…anche troppo. Dopo aver disinfettato la “ferita” col mercurocromo e aver fatto una fasciatura da grande ospedale, ci consiglia caldamente una terapia doppia di antibiotico e una pomata cicatrizzante…cosa???? Per quella lieve sollevazione della pelle da cui non è uscita neanche una goccia di sangue? E’ palese che tu voglia sfoltire le tue scorte di medicinali ma mi pare un po’ esagerato. Chissà quanto ci farai pagare questa prestazione d’urgenza. E infatti il conto salato non si fa attendere (300 rial), ma almeno siamo sicuri e disinfettati.
Proseguiamo zoppicanti la passeggiata, chiedo a Erika se vuole tornare in albergo a riposare l’arto dolorante ma stoica e testarda come sempre mi dice che vuole continuare. Ci perdiamo quindi tra la campagna e camminiamo ore sotto il sole che oggi è cocente ma che ci permette di vedere questa vallata piena di colori e di vita.

From Budhanilkanta to Boudhanath
Rimedi per il sole cocente

 

From Budhanilkanta to Boudhanath
La passeggiata dolorante

Arriviamo al primo monastero buddista che è ora di pranzo e la sala delle preghiere è chiusa. La vista è comunque magnifica e i giovanissimi monaci bambini che corrono ovunque mettono allegria anche se ci fanno porre qualche domanda sulla vocazione così precoce.

Kathmandu Kopan Monastery
Ritorno al buddismo

 

Kathmandu Valley
La maestosa valle di Kathmandu

Decidiamo di mangiare al piccolo ristorantino e poi ridiscendere verso Boudhanath saltando il monastero femminile. Erika, anche se non lo ammetterebbe mai, ha dolore al ginocchio e già siamo stati abbastanza incoscienti a camminare per così tanto invece di lasciarlo riposare. Almeno riduciamogli la strada da fare!
Da qui si potrebbe prendere un taxi ma anche in questo caso l’orgoglio di Erika non gli permette di scendere a compromessi. Camminiamo quindi fino ai minuscoli vicoletti che precedono l’ingresso alla piazza dello stupa. Anche qui dobbiamo pagare un sontuoso biglietto. Quando la vista ci si apre davanti non rimaniamo a bocca aperta come con i dorati e immensi stupa Birmani. La vista è più modesta, il cono è pitturato di una semplice vernice bianca e i due enormi occhi del Budda sono la decorazione che attrae di più l’attenzione. Ma è questa austerità tipica delle architetture e della mentalità montana che ci attrae. Priva di orpelli inutili va dritta all’essenziale e lo fa con una immediatezza disarmante. Inoltre ci sono anche i danni del terremoto anche qui non del tutto sanati.

Kathmandu Boudhanath
A me gli occhi…

Facciamo il giro orario attorno a questo luogo sacro e facciamo ruotare qualche cilindro di preghiera, visto mai che funzioni contro le recenti sfighe o, meglio, contro il recente “karma negativo”.
Incontriamo anche una tipica cerimonia nepalese dove degli omoni vestiti di rosso e con una maschera di demone dalla folta capigliatura si dimenano al ritmo dei tamburi: molto suggestivo.

Kathmandu Boudhanath
Ballo in maschera

Ci fermiamo poi in un caffè a prendere qualcosa di fresco e a far riposare il ginocchio dolorante di Erika.
Dopo poco riprendiamo la strada della guesthouse che raggiungiamo con il solito autobus fino a Ratnapark e poi con l’apetto-taxi n.5 fino all’incrocio da cui siamo partiti stamattina.
Ora è tempo di riposarsi un po’ curando le articolazioni doloranti con del ghiaccio preso da una farmacia qui vicino. A cena però Erika non ne vuol sapere di rimanere in hotel. Usciamo quindi e ci dirigiamo stavolta verso la parte nord di Kathmandu, fuori dagli itinerari turistici e finiamo a mangiare in una tavola calda che non ci lascia un piacevole ricordo: diciamo che il cibo era commestibile.
Tornando verso la guesthouse però ci fermiamo in un piccolissimo bar dove una signora al mio “ possiamo avere due masala chai?” risponde con l'evidentissimo segno che contraddistingue la gestualità indiana: il lento scuotere la testa lateralmente. In Italia questo gesto potrebbe stare a significare qualcosa tipo “non lo so se ce l’ho / se te lo posso dare” e io rimango un po’ interdetto: o Sì, o No, Signò, non è che posso saperlo io se ce l’hai il the! Però poi guardando l’espressione divertita di Erika capisco che per la prima volta sono riuscito a vedere questo gesto, anche se non l’ho interpretato bene. Perché qui quel segno non significa altro che “Sì”. Erika lo aveva visto usare altre volte ma io non so perché me lo ero sempre perso, così mi ci avevamo scherzato su spesso. Sono sicuro che anche per non averlo riconosciuto subito mi prenderà in giro un bel po’!!
Andiamo a dormire ancora divertiti e speranzosi che domani, alla visita medica, non ci facciano storie per il ginocchio fasciato di Erika!!!

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