• Cat Ba Island - Non svegliateci da questo sogno!

  • Hampi - Una motorella nella preistoria

  • Ushuaia - La fine del mondo...o quasi

  • Siem Reap - Una civiltà perduta

  • Coyaque e Villa Cerro Castillo – La prima vetta conquistata

  • Luang Nam Tah - Il meraviglioso mondo di Keo (parte I)

  • Huaraz - Un compleanno con la testa tra le nuvole e la coca

  • Salar de Uyuni (e Uyuni) - Solo bianco intorno a noi

  • Koh Ngai - La quiete dopo la tempesta

  • Udaipur - Buon compleanno Erika!!!!

  • Iguazu Falls – La settima meraviglia del mondo...di corsa

  • Puerto Natales - Le mitiche vette di Torres del Paine

  • Copacabana - Il lago dove nacque il sole

  • El Calafate – Il ghiacciaio si scioglie

  • Langmusi - Una religione da capire

  • Quilotoa Loop Part II - Il lago nel vulcano

  • Agra - La tomba della principessa

  • Osh - Una cavalcata nella neve

  • Nubra Valley - Il passo più alto del mondo in sella alla Royal Enfield (parte I)

  • Bagan - "..dicovi ch’ell’è la più bella cosa del mondo.."

  • Esfahan: "we are a family now"

  • Parque Tayrona - Finalmente ai Caraibi

  • Samarcanda - Mille e un fiocco di neve

  • Bariloche - La cartolina della Patagonia

  • Thakek - Il leggendario Loop (parte I)

  • Cusco e Machu Picchu - Dove enormi catene montuose e foreste si incontrano

  • Chennai - Il colorato Sud

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Una lista "ragionata" di quello che abbiamo messo dentro ai nostri zaini

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Un dettaglio sui costi paese per paese in base alla nostra esperienza

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Il nostro blog

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Turchia: "kuçuk Aya Sophia" un anno dopo

14 - 18 Gennaio 2016

Istanbul un anno dopo! Per prima cosa stamattina dobbiamo risolvere un imprevisto: il caricabatteria del Mac ha deciso di fare le bizze e va ricomprato. Poco male appena sotto l’albergo un fornitissimo negozio di computer ci fornisce il ricambio a poco più di 30€ senza dover andare al lontanissimo Apple store. Mitico! Prendiamo un autobus che ci porta in un tempo infinito nella parte occidentale attraversando anche il ponte sul bosforo. Da qui prendiamo la metro e scendiamo poco sopra la torre di Galata. Vogliamo assolutamente mangiare per pranzo i deliziosi panini con il pesce assaggiati l’anno scorso. Scendiamo i vicoletti che portano al corno d’oro e subito ci innamoriamo nuovamente di questa magica città.

Santa Sophia Istanbul
Santa Sofia

Ha un fascino che non è facile descrivere: ci sono gli scorci sul bosforo e sul corno d’oro, gli infiniti minareti di sultanakmet che sembrano sorreggere il cielo, c’è l’atmosfera da medina araba e la grandiosità di capitale di un impero, c’è la multiculturalità di una terra che fa da spartiacque tra Europa ed Asia e che prende il meglio dalle due culture. E’ una delle città che preferisco al mondo.
Ci mangiamo un panino col pesce che te dico levate (il mio con più cipolla che pesce…bonooo) e poi su verso kucuk Aya Sofya (la piccola Aya Sofya); una piccola moschea sotto sultanakmet che ci aveva fatto innamorare l’anno scorso. Fuori ha un giardino con un porticato dove si puo prendere dell’ottimo te e dentro è luminosissima e meravigliosa.

Kucuk Aya Sofia
Kuçuk Aya Sophia

Passiamo li un ora circa. Facciamo un salto anche di fronte alla grande Aya sofia e alla Moschea Blu. Il tempo è magnifico sembra una giornata primaverile e anche se il clima è teso ed è pieno di polizia lo spettacolo di questi due magnifici edifici è da togliere il fiato. Prima di andarsene abbiamo il desiderio di rivedere Istanbul dal posto più panoramico che ci possa essere: I gradoni sul bosforo di Uskudar. Arriviamo li che sta tramontando il sole: è uno di quegli spettacoli che non si possono dimenticare. Come cala il buio poi i minareti illuminati fanno risplendere sultanakmet di tutto lo splendore che possiede. Trascorriamo li un paio d’ore gustandoci lo spettacolo e giocando a fare i fotografi con il mio amore. E’ stupendo condividere questi momenti con lei.

Istanbul da Uskudar
Vista di Istanbul da Uskudar

Siamo al 16 e oggi iniziano i grandi spostamenti. Ieri sera abbiamo fatto spesa in vista di questo giorno e mezzo da trascorrere sul treno. Arriviamo in stazione con una mezz’oretta di anticipo e ci accoglie una fila kilometrica. Non riusciamo a capire il perché ma poi intravediamo dei controlli di sicurezza. Un po’ di preoccupazione ci sale in primo luogo perché speriamo di fare in tempo e poi perché negli zaini abbiamo due coltellini svizzeri. Speriamo non ci facciano storie. Fortunatamente con largo anticipo saliamo sul treno senza problemi.
Le prime 4 ore passano tranquille e ci troviamo ad Ankara. L’impressione che abbiamo appena scesi, complice probabilmente anche il tempo grigio, è di una citta dallo stile sovietico. Palazzoni e monumenti molto austeri. Ah, per di più, della serie evitare assembramenti, c’è il congresso nazionale di uno dei maggiori partiti proprio di fronte alla stazione. Perfetto!

Ankara
Ankara

Ci defiliamo e carichi come muli ci dirigiamo verso quello che abbiamo letto essere il quartiere un po’ più caratteristico vicino alla stazione: Ulus. Effettivamente ci ritroviamo dentro un dedalo di viuzze tutte dedicate a bazar. Non coloratissimo come quelli arabi ma autentico e per questo meritevole di essere visto. Ci lasciamo trasportare dalla folla e dall’odore di pesce fritto (che non capisco dove lo peschino) fino ad arrivare ad un grosso passaggio tra due palazzi che ci incuriosisce. Entriamo e scopriamo un mini bazar nel bazar. Ci troviamo in una corte quadrata con un ballatoio tutto intorno nella parte superiore; sia su questo che al piano terra si trovano una miriade di negozietti e al centro una costruzione in pietra dalla funzione non meglio identificata con tutti intorno dei tavolini dove poter sorseggiare del te. A noi questi posti fanno impazzire quindi decidiamo di godercelo per qualche tempo seduti su questi tavolini.
Alle 18 riprendiamo il treno (Dogu Expresi) stavolta con direzione Erzurum. Venti ore di treno ma almeno abbiamo la cuccetta…o almeno…cosi pensavamo!! Appena l’espresso arriva al binario ci accorgiamo che altro non è se non un nostro regionale con sedili leggermente più larghi. Vi lascio immaginare la nottata con luci sempre accese, sedili a stento reclinabili e bambini urlanti fino alle 4 di mattina!!

Apro gli occhi per la duecentesima volta per controllare che ancora ci fossero gli zaini e una flebile luce rosata mi colpisce dall’esterno. E’ l’aurora e fuori ci sono delle montagne innevate stupende. E’ tutto doppiamente ovattato dalla neve e dalle prime luci del mattino. Sveglio Erika perché questo spettacolo vale la notte quasi insonne che abbiamo passato.
Fino a Erzururum il paesaggio ci stupisce: il treno attraversa delle strettissime gole rocciose scavate da fiumi, vallate contornate da immense catene montuose color bianco candido e paesini costituiti da poche case di pastori o contadini nel mezzo del più assoluto nulla. Ora che è inverno il fondo delle vallate è molto secco ma le montagne innevate bilanciano il tutto. Probabilmente in primavera qui sarà tutto verde.
Ci mettiamo un po’ a sonnecchiare quando ci si avvicina una signora con un viso paffuto e dolcissimo che ci inizia a parlare in turco stretto con un sorriso tutto dorato. Ovviamente non capiamo una parola quindi lei chiama la figlia che timidamente si avvicina e ci traduce due frasi in inglese…alla fine di questo la donna va a prendere qualcosa nella borsa e ci regala un libriccino che poi capiamo essere di preghiere del corano. E’ stato un gesto bellissimo che ci fa rimanere senza parole. Da una donna che probabilmente ha pochissimo, a giudicare dalle valigie che ha, riceviamo un dono di benvenuto. Ci ha riempito il cuore.
Stiamo per arrivare a Erzurum. Un po’ di tensione sale: fin qui è stato tutto semplice ma da ora in poi iniziano le vere sfide: riusciremo a trovare un modo per arrivare a Dogubeyazit? Riusciremo ad arrivare alla frontiera? Riusciremo a passarla? Questi interrogativi ci affollano la mente mentre il treno inizia a fermarsi.
Scesi iniziamo a chiedere un po’ in giro come raggiungere la stazione degli autobus (Otogari): riusciamo a trovare un passaggio sull’autobus che porta all’aeroporto che ci lascia di fronte al terminal…sulla corsia opposta di una superstrada! Attraversiamo le 4 corsie schivando qualche auto e camion lanciati a tutta velocità e arriviamo sani e salvi. C’è un autobus che parte alle 16 ma chiedendo ci caricano su un minibus in partenza per Dogubayezit insieme ad altri ragazzi con i quali facciamo amicizia. Ce l’abbiamo fatta!!! Non era niente di particolarmente difficile ma a noi sembra di aver trovato la via per l’isola che non c’è!
Giunti a destinazione facciamo amicizia con un altro passeggero: un ragazzo iraniano che sta tornando a casa (e che fortunatamente conosce benissimo l’inglese). Decidiamo di fare la strada insieme. In realtà questo incontro ci regala un'altra scoperta: il primo assaggio dell’ospitalità Iraniana. Dal momento in cui ci presentiamo entriamo immediatamente nella sua ala protettrice: chiede lui per l’albergo, contratta per lo sconto, trova un posto buono per la cena, ci consiglia per il tragitto in Iran. Tutto questo senza volere nulla in cambio, niente di niente. Una bontà d’animo che spiazza, di cui si legge tantissimo sui resoconti di viaggio di altri viaggiatori riguardo gli Iraniani, ma che se non si vive sulla propria pelle non si può capire.

Il giorno successivo ci svegliamo e aprendo le tende della nostra stanza scopriamo di fronte a noi l’imponenza del monte Ararat. Si dice che sulla sommità ci sia l’impronta dell’arca di Noè, approdata li dopo il diluvio.

Monte Ararat
Monte Ararat

Sempre con il nostro amico (Masoud) prendiamo un minubus per la frontiera dove arriviamo di buon mattino. Ci dice che ci aspetterà di la per aiutarci a cambiare i soldi, per comprarci una SIM iraniana perché la nostra non funziona e per accompagnarci al nostro autobus per Tabriz. Siamo senza parole e, devo ammetterlo, ancora un po’ diffidenti: cosa lo spinge a fare tutto questo? Ci vorrà spillare qualcosa? Pensieri di cui ora mi vergogno ma che provengono dalla nostra cultura nella quale niente si fa se non per qualcosa.
In frontiera ci isolano dalla coda di iraniani e ci mettono in un salottino molto elegante in compagnia di una donna distinta che parla un inglese fluente. Ci riserva un accoglienza calorosa e amichevole facendoci qualche domanda e rispondendo a tutte le nostre eventuali domande. Ci lascia il suo biglietto da visita per contattarla per qualsiasi cosa durante il viaggio e per farle sapere, al termine del nostro tour, le nostre impressioni sull’Iran. Siamo sempre di più senza parole. Mai ero stato accolto cosi in un paese. Per di più da una frontiera terrestre.
SIAMO IN IRAN!!! Salutiamo il monte Ararat e ci tuffiamo nel traffico caotico in un taxi guidati da Masoud. Lui deve andare a Khoi dalla madre ma ciò non lo distoglie dall’obiettivo di aiutarci in tutte le formalità possibili con un impegno che neanche una guida di professione potrebbe avere. Noi ci sentivamo a disagio ma lui continuava a ripeterci di non preoccuparci, è cosi che si deve fare. Dopo i primi istanti di diffidenza ci siamo affidati a lui. Avrebbe potuto fregarci, rapinarci o che so io (pensieri sempre di cui mi vergogno ora) e invece ogni passaggio ce lo spiegava con la massima trasparenza portandoci le prove di ogni minima spesa per fugare ogni possibile dubbio. Non mi stancherò mai di dire che questa è stata la sorpresa e insieme la lezione più forte che ho avuto nei miei viaggi. Più di un paesaggio, più di un città magnifica, vedere l’assoluta bontà d’animo negli Iraniani è il più bel monumento al genere umano che ci possa essere.
Nell’autobus parliamo un po’ con il mio amore di quanto successo fino a questo momento. Entrambi siamo entusiasti di quanto stiamo scoprendo dei pezzetti di mondo anche non riconosciuti internazionalmente ma che per qualcuno rappresentano casa. Anche se non ci sono spettacolari artefatti da vedere, il solo fatto di condividere tratti di vita di queste persone ci fa sentire un po’ meno chiusi nel nostro mondo. Per i monumenti ci sarà tempo.
Alle 19 con un autobus un po’ sgangherato raggiungiamo Tabriz. Prendiamo un taxi che prova a portarci in un hotel che conosce a basso prezzo: 48€ a notte. Ringraziamo ed usciamo. Ci facciamo lasciare vicino al bazar e la prima guest house che incontriamo ci offre una stanza dignitosa a 10€ senza bagno in camera. Presa!
Usciamo per cena (facciamo prima un giro di tutte le guest house della zone per sapere prezzi e per vedere le stanze ma la nostra rimane quella che ci convince di più) ma non troviamo nessun posto dove mangiare. Incrociamo un gruppo di ragazzi che ci fermano con il solito “hello, where are you from?”. Per un oretta buona diventano i nostri migliori amici e tra farsi, inglese, turco e italiano ci facciamo delle grandi belle risate mentre ci accompagnano in un posto buono dove mangiare un kebap all’iraniana. Andiamo a dormire ancora pensando agli splendidi incontri di questi giorni.

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 "Un indovino mi disse" T. Terzani

 

 

"Muovendomi fra l'Asia e l'Europa in treno, in nave, in macchina, a volte anche a piedi, il ritmo delle mie giornate è completamente cambiato, le distanze hanno ripreso il loro valore e ho ritrovato nel viaggiare il vecchio gusto di scoperta e di avventura.

D'un tratto, senza più la possibilità di correre a un aeroporto, pagare con una carta di credito, schizzar via ed essere, in un baleno, letteralmente dovunque, sono stato costretto a riguardare al mondo come a un intreccio complicato di paesi divisi da bracci di mare che vanno attraversati, da fiumi che vanno superati, da frontiere per ognuna delle quali occorre un visto: e un visto speciale che dica "via terra", come se questa via, specie in Asia, fose nel frattempo diventata così insolita da rendere automaticamente sospetto chiunque si ostini a usarla.

Spostarsi non è stato più questione di ore, ma di giorni, di settimane. Per non fare errori, prima di mettermi in viaggio, ho dovuto guardare bene le carte, rimettermi a studiare la geografia. Le montagne sono tornate a essere possibili ostacoli sul mio cammino e non più delle belle, irrilevanti rifiniture in un paesaggio visto da un oblò.

Il viaggiare in treno o in nave, su grandi distanze, m'ha ridato il senso della vastità del mondo e sopratutto m'ha fatto riscoprire un'umanità, quella dei più, quella di cui uno, a forza di volare, dimentica quasi l'esistenza: l'umanità che si sposta carica di pacchi e di bambini, quella cui gli aerei e tutto il resto passano in ogni senso sopra la testa.

Impormi di non volare è diventato un gioco pieno di sorprese. A far finta, per un po', d'esser ciechi si scopri che per compensare la mancanza della vista, tutti gli altri sensi si affinano. Il rifiuto degli aerei ha un effetto simile: il treno, con i suoi agi di tempi e i suoi disagi di spazio, rimette addosso la disusata curiosità per i particolari, affina l'attenzione per quel che si ha attorno, per quel che scorre fuori dal finestrino. Sugli aerei presto si impara a non guardare, a non ascoltare: la gente che si incontra è sempre la stessa; le conversazioni che si hanno sono scontate. In trent'anni di voli mi pare di non ricordarmi di nessuno. Sui treni, almeno quelli dell'Asia, no! L'umanità con cui si spastiscono i giorni, i pasti e la noia non la si incontrerebbe altrimenti e certi personaggi restano indimenticabili.

Appena si decide di farne a meno, ci si accorge di come gli aerei ci impongono la loro limitata percezione dell'esistenza; di come, essendo una comoda scorciatoia di didtanze, finiscono per scorciare tutto: anche la comprensione del mondo. Si lascia Roma al tramonto, si cena, si dorme un po' e all'alba si è già in India.

Ma un paese è anche tutta una sua diversità e uno deve pur avere il tempo di prepararsi all'incontro, deve pur fare fatica per godere della conquista. Tutto è diventato così facile oggi che non si prova più piacere per nulla. Il capire qualcosa è una gioia, ma solo se è legata a uno sforzo. Così con i paesi. Leggere una guida, saltando da un aeroporto all'altro, non equivale alla lenta, faticosa acquisiszione - per osmosi - degli umori della terra cui, con il treno, si rimane attaccati.

Raggiunti in aereo, senza un minimo sforzo nell'avvicinarli, tutti i posti diventano simili: semplici mete separate fra di loro solo da qualche ora di volo. Le frontiere, in realtà segnate dalla natura e dalla storia e radicate dalla coscienza dei popoli che ci vivono dentro, perdono valore, diventano inesistenti per chi arriva e parte dalle bolle ad aria condizionata degli areoporti, dove il "confine" è un poliziotto davanti allo schermo di un computer, dove l'impatto con il nuovoè quello con il nastro che distribuisce i bagagli, dove la commozione di un addio viene distratta dalla bramosia del passaggio obbligato attraverso il "free duty shop", ormai uguale dovunque.

Le navi si avvicinano ai paesi entrando con lento pudore nelle bocce dei loro fiumi: i porti lontani tornano ad essere delle agognate destinazioni, ognuna con la sua faccia, ognuna con il suo odore. Quel che un tempo si chiamavano i terreni d'aviazione erano anche loro un po' così. Oggi non più. gli aeroporti, falsi come messaggi pubblicitari, isole di relativa perfezione anche nello sfacelo dei paesi in cui si trovano, si assomigliano ormai tutti: tutti parlano nello stesso linguaggio internazionale che da a ciascuno l'impressione di essere arrivato a casa. Invece si è solo arrivati in una qualche periferia da cui bisogna ripartire, in autobus o in taxi, per un centro che è sempre lontanissimo.

Le stazioni invece no, sono vere, sono specchi delle città nel cui cuore sono piantate. Le stazioni stanno vicino alle cattedrali, alle moschee, alle pagode o ai mausolei. una volta arrivati li, si è arrivati davvero."


T. Terzani, "Un indovino mi disse"


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